Discriminazione

COMPORTAMENTI CHE POSSONO ESSERE DEFINITI DELLE VERE E PROPRIE DISCRIMINAZIONI

La Corte di Giustizia europea ha pronunciato la seguente sentenza in materia di discriminazione di cittadini comunitari nell'ambito lavorativo. "In forza dell'art. 48 del Trattato, la libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza fra i lavoratori degli Stati membri per quanto riguarda l'occupazione, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. Va rilevato, anzitutto, che il principio di non discriminazione enunciato dall'art. 48 del Trattato è formulato in termini generali e non è rivolto in modo particolare agli Stati membri. 
La Corte ha così considerato che il divieto delle discriminazioni basate sulla cittadinanza riguarda non solo gli atti dell'autorità pubblica, ma anche le norme di qualsiasi natura dirette a disciplinare collettivamente il lavoro subordinato e le prestazioni di servizi (v. sentenza 12 dicembre 1974, causa 36/74, Walrave e Koch, Racc. pag. 1405, punto 17).
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    La Corte, infatti, ha considerato che l'abolizione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone sarebbe compromessa se l'eliminazione delle limitazioni stabilite da norme statali potesse essere neutralizzata da ostacoli derivanti dall'esercizio dell'autonomia giuridica di associazioni ed enti di natura non pubblicistica (v. citata sentenza Walrave e Koch, punto 18, e sentenza 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman e a.,Racc. pag. I-4921, punto 83).


    La Corte ha sottolineato che, essendo le condizioni di lavoro nei vari Stati membri disciplinate talvolta da norme di natura legislativa o regolamentare, talvolta da contratti ed altri atti stipulati o emessi da privati, una limitazione del divieto della discriminazione basata sulla cittadinanza agli atti della pubblica autorità rischierebbe di creare disparità nella sua applicazione (v. citate sentenze Walrave e Koch, punto 19, e Bosman e a., punto 84).

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La Corte ha del pari considerato che la circostanza che determinate disposizioni del Trattato si rivolgano formalmente agli Stati membri non esclude che, al tempo stesso, vengano attribuiti dei diritti ai singoli interessati all'osservanza degli obblighi così precisati (v. sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne, Racc. pag. 455, punto 31). 

La Corte ha così concluso, quanto ad una disposizione del Trattato avente natura imperativa, che il divieto di discriminazione riguarda del pari tutti i contratti che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato, come pure i contratti fra privati (v. citata sentenza Defrenne, punto 39).

Siffatta considerazione deve, a fortiori, valere per l'art. 48 del Trattato, il quale enuncia una libertà fondamentale e costituisce una specifica applicazione del divieto generale di discriminazione enunciato nell'art. 6 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 12 CE). Al riguardo, esso mira a garantire, al pari dell'art. 119 del Trattato CE (gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti con gli artt. 136 CE - 143 CE), un trattamento non discriminatorio nel mercato del lavoro. Si deve quindi considerare che il divieto della discriminazione in base alla cittadinanza, enunciato dall'art. 48 del Trattato, si applica anche ai privati."

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